sabato 3 dicembre 2011

La Chiesa argentina fu complice della dittatura militare


Lo scrittore e storico Horacio Verbitsky accusa le autorità ecclesiastiche ricostruendo la storia politica del paese sud americano

GIACOMO GALEAZZICITTÀ DEL VATICANO
Bufera sui vescovi in Argentina. La Chiesa cattolica argentina «conosceva e approvava i metodi usati dai militari durante la dittatura». A documentare le accuse è lo scrittore Horacio Verbitsky, autore di una storia politica della Chiesa in quattro volumi e delle inchieste «Doppio gioco. L’Argentina cattolica e militare» e «Il volo». Le rilevazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos». A partire appunto dalla testimonianza del capitano di fregata Adolfo Scilingo che durante la dittatura aveva gettato in mare da un aereo trenta persone ancora vive (erano state sequestrate e torturate nella Scuola di meccanica della marina, il principale campo di concentramento della marina militare argentina): «La gerarchia ecclesiastica approvava questo metodo, perché era un modo “cristiano e poco violento” di morire».

Al ritorno dal primo volo, Scilingo era in preda ai sensi di colpa, ma il cappellano dell’Esma lo tranquillizzò citando la parabola biblica in cui si racconta della separazione del grano dall’erba cattiva. Rincara la dose Estela Carlotto, presidente dell’associazione di Plaza de Mayo :«Abbiamo sofferto sulla nostra pelle la complicità della Chiesa argentina con la dittatura militare. Tranne alcuni vescovi (4 o 5 che ci hanno sempre aiutato, insieme alla Chiesa di base) la Chiesa argentina è molto conservatrice. Pur sapendo quello che stava succedendo lo ignorò, tacque, non difese le vittime. Oggi la Chiesa argentina è più progressista e c’è una specie di riconoscimento della violazione dei diritti umani. Noi vogliamo, poiché il passato non è certo un capitolo chiuso, visto che non si sa dove sono finiti i desaparecidos, che la Chiesa fornisca una risposta precisa alla società argentina». Non è stato sufficientemente chiarito l’operato della Chiesa cattolica e, in particolare, di gran parte della sua gerarchia. Su diversi vescovi e su molti cappellani militari ricadono sospetti di complicità con la dittatura. Molti detenuti che riuscirono a sopravvivere alla tortura e ai campi di concentramento denunciarono il fatto che i cappellani militari assistevano i torturatori e addirittura collaboravano indirettamente agli interrogatori, cercando di spezzare la resistenza dei prigionieri. In tutti i casi coloro che si comportavano così si giustificavano dicendo che intendevano collaborare alla difesa del «cattolicesimo» e alla sconfitta del «comunismo» perché, secondo la versione dei militari, tutti i prigionieri erano comunisti.




Solo nel 1996 (a tredici anni dalla fine della dittatura militare) l’episcopato cattolico,attraverso la Conferenza episcopale, ha fatto un esame di coscienza nel quale si ammettono errori e responsabilità minori ma si rivendica, in generale, la metodologia di dialogo permanente che le autorità ecclesiastiche mantennero con i militari. Sia le vittime sia i carnefici, nelle loro testimonianze, parlano del ruolo della Chiesa cattolica nello sterminio di centinaia di persone durante la dittatura. «In ogni contingente militare c’era un sacerdote che aveva il compito di convincere i detenuti a collaborare con l’esercito- afferma Horacio Verbitsky-.Alcuni religiosi usavano l’uniforme da paracadutista e il presidente della conferenza episcopale, il cardinale Raúl Francisco Primatesta, aveva ricevuto un brevetto aereo ad honorem.


Nel 1976 il giornalista Jacobo Timerman, durante un pranzo con uno stretto collaboratore del capo della marina Emilio Massera, disse: “Sarebbe meglio introdurre la legge marziale e condannare gli imputati alla pena di morte, solo dopo averli sottoposti a un regolare processo”. Ma il collaboratore di Massera rispose: “In questo caso interverrebbe il Papa e sarebbe difficile proseguire con le fucilazioni”». Molti anni dopo anche il generale Ramón Genaro Díaz Bessone, teorico della cosiddetta guerra controrivoluzionaria, in un libro ammise che durante la dittatura avevano sequestrato e ucciso clandestinamente gli oppositori politici, senza introdurre la legge marziale, per paura delle reazioni del Vaticano:«Pensate al casino che il papa scatenò contro Francisco Franco nel 1975 quando fece fucilare tre persone. Sarebbe stato il finimondo. Non si possono fucilare settemila persone». Díaz Bessone alludeva al fatto che nel 1975 il dittatore spagnolo Francisco Franco, ormai in declino, ricorse alla pena di morte contro gli avversari politici nonostante la condanna di tutto il mondo, compresa quella di Paolo VI. «Tuttavia negli anni trenta il dittatore aveva ricevuto il sostegno dell’episcopato spagnolo e di Pio XI e Pio XII- sottolinea Horacio Verbitsky-.


Ma la situazione in Spagna era diversa, lì era stata combattuta una vera e propria guerra civile in cui anche gli avversari di Franco, i repubblicani, fucilarono molti nazionalisti, tra cui centinaia di sacerdoti. Invece in Argentina non si trattò di una guerra tra due gruppi armati avversari, ma di un’operazione di ingegneria sociale che andò ben oltre le contrapposizioni politiche. Un’operazione che poté contare su un apparato ideologico e dogmatico e una retorica da crociata. Il cardinale Raúl Francisco Primatesta una volta disse che lui non era un profeta del castigo, ma che bisognava agire e non limitarsi alle parole. “Può darsi che il rimedio sia duro, perché la mano sinistra di Dio, si dice sia paterna, ma può essere molto dolorosa”. Sinistra è l’espressione che è stata usata per indicare la repressione, il rapimento, la tortura e l’uccisione segreta degli oppositori». Oggi in Argentina, rimangono ancora molti capitoli oscuri o ancora da scrivere su quanto accadde allora, soprattutto sulle atrocità commesse dal regime e sulle complicità di persone e istituzioni con quanti commisero sistematicamente violazioni dei diritti umani. Resistono ancora «patti di silenzio», un muro di omertà per coprire fatti e persone, depistare l’informazione e impedire che venga alla luce tutta la verità. Molto di quanto accadde non è conosciuto dall’opinione pubblica e anche le autorità attuali, civili e militari, preferiscono che tali informazioni non arrivino al pubblico, per non «riaprire le ferite del passato» dicono.


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