sabato 10 settembre 2011

Voci nel silenzio dei prigionieri-Inquisizione-






Voci nel silenzio dei prigionieri
Sopravvissute a più di quattrocento anni, occultate da strati spessi di intonaco, che pure le hanno protette, sono venute alla luce solo da qualche tempo alcune inedite testimonianze delle voci dei prigionieri delle celle del carcere segreto dell’Inquisizione, dove, per secoli, gli uomini inviati in Sicilia da Torquemada interrogarono e torturarono innocenti in nome di Dio.



L’edificazione dell’intera struttura carceraria - annessa allo Steri di Palermo che era da poco divenuto sede del Tribunale dell’Inquisizione - risale al 1601, per mano dell’ingegnere del Regno Diego Sanchez. Per la prima volta, dunque, non si assiste al riutilizzo e al cambio di destinazione d’uso di un altro edificio ma ad una costruzione che viene pensata e realizzata ex novo proprio per accogliere dei prigionieri. Le celle dello Steri erano divenute insufficienti per rinchiudere eretici, bestemmiatori, streghe, fattucchiere, seguaci del demonio e, ancora, artisti, poeti, intellettuali, scomodi avversari dell’ortodossia politica e religiosa, umanità umiliata e annichilita che ha lasciato, sulle fredde pareti delle celle, graffiti, disegni, poesie, vere e proprie invocazioni, testimonianza unica al mondo che costituisce insieme opera d’arte e atto d’accusa contro l’ingiustizia del potere.
Il grande studioso delle tradizioni popolari, il siciliano Giuseppe Pitrè, si dedicò per lungo tempo ai dipinti del primo piano della struttura carceraria, passando notti intere a scrostare l’intonaco dalle pareti che ospitavano le opere, cercando, con fervore, di opporsi ai lavori di riadattamento che dovevano interessare l’intero palazzo agli inizi del Novecento e che avrebbero inevitabilmente concorso al danneggiamento dei dipinti stessi. Diverse pareti, nonostante le polemiche del Pitrè, vennero abbattute e molte altre danneggiate; solo pochi dipinti riuscirono a sopravvivere sotto l’intonaco e i pesanti scaffali. Lo stesso Sciascia - autore di Morte dell’Inquisitore - si introduceva furtivo tra le macerie, attratto, anch’egli, dalle affascinanti testimonianze dei prigionieri.

   

L’intero impianto riesce comunque a salvarsi insieme con i suoi tesori nascosti, e viene, infine, acquisito dall’Università di Palermo.
Sono le pitture rinvenute in due delle celle del pianterreno a costituire una recentissima e autentica scoperta: si tratta di una serie di importantissimi dipinti datati e firmati direttamente da tre diversi prigionieri, di cui è stato possibile rintracciare le tragiche storie - grazie ad alcuni documenti conservati all’archivio centrale dell’Inquisizione di Madrid. Alcuni degli episodi più salienti appaiono descritti dagli stessi prigionieri sulle pareti. La firma più evidente, con scene di una battaglia navale (forse quella di Lepanto), è quella di Francesco Mannarino, costretto a convertirsi all’Islam e per questo catturato al suo ritorno in patria dai paladini dell’ortodossia cristiana. Accanto, le tracce di un Paolo Majorana, un anticlericale, habituè delle segrete, autore di un suggestivo Purgatorio, affollato di volti allucinati e allucinanti tendenti all’impressionismo, che sovrasta un Inferno fatto solo di traditori. E ancora, la firma di Paolo Gonfaloni, autore di un Sant’Andrea e di una Maddalena con l’ampolla degli oli usati per ungere Cristo. Nella seconda cella, una sorta di preghiera-invocazione alla morte di un prigioniero malato di febbre malarica che teme di sentire suonare la campanella, segno dell’arrivo degli inquisitori per nuovi interrogatori. Da brividi. Di Michele Murrichino, ancora, alcuni dei versi più penosi, una canzone dedicata a Gesù Cristo in cui anela all’irraggiungibile perdono divino. Testimonianze, queste, davvero strazianti, se si pensa al terribile teatro di queste vicende: celle piccolissime, quasi del tutto prive di luce naturale, dove si affollavano più di otto prigionieri, che non avevano a disposizione nessuno strumento pittorico per realizzare le proprie opere, eccetto legnetti come pennelli e pezzetti di coccio frantumato, utilizzati come pigmento per dipingere, fissati all’intonaco per mezzo di leganti alimentari come uova o latte. Quello che ne risulta è un insieme suggestivo di “voci” che ben riescono a rendere la descrizione di giorni bui e drammatici, fatti di violenza e oppressione, di pianto e disperazione, la cui unica possibilità di catarsi era, allora, soltanto un urlo nel silenzio, graffito con dolore sulle pareti di un luogo che, probabilmente, per la maggior parte dei prigionieri sarebbe stato l’ultima “dimora” prima di una morte disumana.

testo
Chiara Alaimo

fonte:http://www.sikania.it/sitosikania/article42.html

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