venerdì 9 settembre 2011

Genocidio in Ruanda-4°articolo-


Lo Schindler italiano
del genocidio in Ruanda

Lei viveva in Ruanda quando è scoppiato il massacro del 1994: cosa successe?
C’era una guerra civile, che la fazione al potere stava perdendo. Il regime hutu ha pensato al genocidio come alla soluzione per mantenere il potere contro i tutsi.
Genocidio perché in 100 giorni sono morte un milione di persone...
Sì, su una popolazione di sette milioni. Le armi utilizzate erano molto primitive: coltelli, machete, bastoni. Quelli che sono stati uccisi con le fucilate hanno avuto una morte semplice.
A scatenare il massacro fu l’abbattimento dell’aereo del presidente ruandese. Lei quel giorno era a Kigali, la capitale?
Sì. Sentimmo due colpi: i missili lanciati contro l’aereo. Poi iniziarono le sparatorie.



Cosa ha fatto, a quel punto?
Erano 4 anni che le due fazioni si contendevano il potere. Io ero console onorario e con il ministero degli Esteri avevamo organizzato un sistema per evacuare gli italiani: ero in contatto radio con ogni settore della Capitale e del Paese. È stato presto chiaro che l’unica cosa da fare era quella.
Ma lei, oltre agli italiani, ha salvato dei tutsi.
Non si può andare da uno, prenderlo e lasciare quello che è lì a fianco, sapendo che molto probabilmente ci lascerà la pelle.
Molti lo hanno fatto...
Probabilmente è la differenza tra un salvataggio realizzato da un civile e uno fatto da un militare: il soldato ha l’ordine di prendere il tale; lo va a prendere e gli altri non hanno importanza. Per me non era così.
Quante persone avete portato via?
Avevamo una settantina di persone oltre agli italiani. Al momento di partire o si abbandonavano o si prendevano con noi. Li abbiamo presi. Per fortuna, all’aeroporto c’era un aereo delle Nazioni Unite che li ha portati a Nairobi.
A quel punto poteva far intervenire militari e diplomatici di professione...
Sì. Ma sono rientrato nella parte Sud del Paese, per recuperare gli italiani lì. E ho capito che era difficile, ma potevo far qualcosa.
Come?
Avevo la sensibilità per poter passare i posti di blocco. Sapevo abbordare quella gente là, discutere, parlare…





Che tipo di persone erano?
Selvaggi! Selvaggi ubriachi e pieni di droga. Ma capivo cosa volevano prima che me lo chiedessero. E questo mi dava una capacità di passare i posti di blocco. Quando avevo il sì, davo la mancia. Così la volta seguente mi avrebbero accolto con più disponibilità. Per questo ho sempre utilizzato gli stessi veicoli, ho sempre messo delle bandiere italiane, mi sono vestito sempre allo stesso modo.
Quindi sapeva che sarebbe tornato ancora?
No, l’ho deciso quando sono andato a recuperare due religiosi che avevano deciso di restare a 15 km da Nyanza, dove avevano un orfanotrofio. Erano italiani: era un po’ il mio dovere cercare di aiutarli.
Così ha raggiunto anche lei l’orfanotrofio?
Ho avuto lo choc della mia vita. I ragazzi africani sono molto espansivi, molto rompiscatole: molto tutto. Invece lì avevo attorno 300 bambini che non muovevano un dito e avevano il terrore negli occhi. In quel momento ho deciso di far qualcosa. Non si possono lasciare dei bambini così.
C’è riuscito?
Sì, trattando con il governo abbiamo avuto l’autorizzazione a portar fuori i bimbi. Che nel frattempo erano diventati 700. Con Terres des hommes siamo andati a prenderli con i camion e dopo un lungo giro siamo usciti dal Paese.
Suo figlio, che l’ha aiutata nei salvataggi, ha dovuto letteralmente camminare sui cadaveri. Anche lei si ricorda scene simili?
Guardi, è già difficile parlarne così…le immagini non cerco di descriverle, perché le rivedo e non voglio. Quanto a mio figlio, ha avuto un battesimo della vita molto duro. Aveva poco più di vent’anni, quando è successo tutto.
La cosa terribile del Ruanda è che persone “normali” si sono trasformate in assassini…
Non sono ancora riuscito a spiegarmi come. Se non con il fatto dell’immunità che da trent’anni avevano nell’agire così: sapevano che non sarebbero stati puniti.





Intanto cosa facevano gli occidentali?
Non c’erano più occidentali, quando andavo in Ruanda. A quel punto i governi europei avrebbero potuto fare qualcosa, senza rischiare la vita dei civili. Ma avrebbero dovuto accettare di avere vittime tra i loro militari. Il Belgio ha perso dieci soldati e nel Paese ancora litigano se abbiano fatto bene oppure no.
Ma si sarebbe potuto fare qualcosa?
Non si sarebbe potuto evitare che tutti fossero uccisi. Ma gran parte delle persone sì.
Ci sono altre zone dell’Africa in cui ora sono in corso stragi da fermare?
C’è il Darfur che ha gli stessi problemi. Ma bisogna sapere: siamo disposti ad avere dei morti stranieri per salvare della gente? Non credo ci sia la disponibilità dell’Unione europea.
Cosa ha spinto lei a fare qualcosa, quando sarebbe stato più facile non far nulla?
La coscienza. Le cose che mi hanno insegnato da piccolo. Ma mi sono fermato quando mi hanno detto che mi avrebbero ucciso. Per questo ho esitato prima di accettare il riconoscimento di Giusto, qui a Milano. Gli altri premiati hanno dato la vita.
Non credo che ci sia niente di più “giusto” che opporsi alla barbarie senza per questo dover perdere anche la vita…
Forse: non lo so. Sentivo anche di avere dei doveri verso la mia famiglia. Andare verso una morte probabile, sapendolo...non lo volevo fare.

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